Lykke Li – I never learn

«C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce», diceva il poeta, e nel caso di Lykke Li e di questo suo ultimo disco, I never learn, la crepa, e la luce che ne entra, sono impressionanti. L’album, chiusura di una trilogia iniziata con Youth novels (2008) e proseguita con Wounded rhymes (2011), sviluppa in maniera ancor più compiuta una serie di temi esistenziali («parla di me, del senso di colpa, della vergogna, del dolore, dell’orgoglio e della confusione di essere donna») a partire da una rottura sentimentale, dolorosissima, sperimentata dalla songwriter svedese. Il risultato è una raccolta di ballate dolenti, sofferte, in cui la malinconia e la sconfitta emotiva prendono forma grazie a trame meno elettroniche che in passato, in cui chitarra, piano e persino la voce suonano scarnificati, ruvidi, come sospesi.

La Li, insomma, per sua stessa ammissione ha affinato la propria voce in chiave cantautorale e meno pop. I never learn, in apertura, colpisce con uno strumming di chitarra acustico e un’orchestrazione di tastiere avvolgente, sinuosa: «I lie here like a starless lover / I’ll die here as your phantom lover / I never learn», recita il testo, e quasi sembra di sentirlo, il “crac” del cuore che si spezza. La successiva No rest for the wicked gioca su una melodia appena abbozzata con il piano, che ad altezza refrain si irrobustisce in parallelo con il rimpianto («I let my good one down/ I let my true love die»). I never learn è, per certi versi, un album paradossale: è sincero fin quasi all’autolesionismo, diretto nei testi e conciso (9 tracce per 33 minuti di musica: è il record di Lykke Li), ma è decisamente stratificato e più ricco di quanto non sembri. Anche nel caso di tracce come Love me like I’m not made of stone, una ballad chitarra e voce, che sembra trattenere a stento tutta la commozione che la impregna.

Dicevo che la Li ci tiene, oggi, ad essere considerata una songwriter e non una musicista pop, ma è innegabile l’appeal melodico di pezzi come Gunshot, Just like a dream e Never gonna love again, che rimandano agli anni ’80, a tratti anche ad un certo tipo di pop “dreamy”, anche se sempre in chiave molto personale. In Heart of steel c’è spazio persino per il gospel, ma l’esuberanza dei cori conduce dritta tra le braccia di Sleeping alone, che è la logica chiusura del cerchio: «we will meet again», «ci incontreremo ancora». Perché Lykke è una che non impara mai. E soprattutto, sa come trasformare il dolore di una crepa nella luce abbagliante di un pugno di grandi canzoni.

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