Arnaud Desplechin – Jimmy P.

Psicoterapia di un indiano delle pianure. E’ questo il sottotitolo di Jimmy P. Ed è proprio da qui che bisogna partire per inquadrare l’ultimo lavoro di Arnaud Desplechin, acclamato regista del bellissimo Racconto di Natale. Si perchè il film tratto dalla storia vera di Jimmy Picard (Benicio del Toro) e Georges Devereux (Mathieu Amalric) non è altro che una cronaca in forma cinematografica della loro relazione paziente-dottore, lontana quindi dai canoni hollywoodiani e dalla “spettacolarità” di altri film che trattano lo stesso argomento come Will Hunting o Il discorso del re.

Tratta dalle conversazioni che lo stesso Devereux aveva raccolto nel libro “Reality and Dream – Psychotherapy of a Plains Indian”, la pellicola ha come protagonista appunto Jimmy P., un nativo americano ancora traumatizzato dalla guerra e sempre più spesso caratterizzato da attacchi di panico, improvvise perdite della vista e forte mal di testa. Tutti sintomi che lo convincono ad andare in una clinica specializzata, dove però gli esami non evidenziano nessun tipo di malattia. Così i dottori chiamano George Devereux, uno “psicoanalista democratico” (come lo ha definito lo stesso regista) che infatti adotta un approccio che fonde l’antropologia alle teorie freudiane per comprendere come persone legate ad ambienti culturali diversi siano caratterizzate da strutture psichiche diverse. Un duplice percorso di scoperta e guarigione che unirà i due personaggi fino a sviluppare lungo la terapia anche una profonda amicizia.

Un confronto, quello tra i due personaggi, che in realtà è tra due popoli, tra due culture. È attraverso il loro percorso e tutti i simboli ad esso associati che il loro passato e quello di una intera nazione si manifestano. Ma è un confronto anche e soprattutto tra due linguaggi, anche cinematografici. Quello tra i due attori (prove maiuscole per entrambi) provenienti da «due differenti tradizioni interpretative, francese e americana» ma anche quello tra Dusplechin e tutta l’iconografia cinematografica americana, che il regista sceglie di affrontare partendo proprio dal linguaggio, dalle parole. È dal significato delle parole indiane che Devereux comincia infatti la sua analisi su Jimmy ed è attraverso di esse che il dottore costruisce la storia del paziente. Le stesse parole che il regista utilizza poi per trasformarle nelle immagini che compongono il film.

Difficile trasportare tutto ciò in una forma cinematografica. Ed infatti, nonostante il fascino ipnotico di alcune sequenze e la bellezza dei temi proposti, alla lunga l’eccessiva presenza di dialoghi di immagini leggermente fini a se stesse, pagano il conto. Una scelta sicuramente coraggiosa ma che finisce per escludere la parte di pubblico più “mainstream”. E che continuerà a tacciare il povero Dusplechin come il solito “regista da festival”.

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