The Black Lips – Underneath the rainbow

I Black Lips sono una di quelle band di cui puoi fidarti, perché non ti deludono mai. Non è (tanto) una questione di qualità, quanto piuttosto di aspettative. Anche quando dicono che faranno il loro album più Southern rock, più “roots”, in realtà sai benissimo che non resisteranno alla tentazione di impilare uno dopo l’altro una manciata di ritornelli pop ruffianissimi. Underneath the rainbow è prodotto con Patrick Carney dei Black Keys, e contrariamente alle dichiarazioni iniziali, non segna poi chissà che distanza rispetto ad Arabia mountain (2011). Alla consolle non c’è più l’ultra cool Mark Ronson, e i pezzi nuovi appaiono nel complesso più “concentrati”, più compatti, ma la miscela è sempre quella: garage, glam e blues rock, testi selvaggi e delle melodie ruffianissime.

Tutto scorre facile e piacevole, anche se non particolarmente memorabile, sospinto dalla brezza degli anni ’60 di Drive by buddy, dal sapore un po’ brit (versante Rolling Stones e The Monkees) o dal rock’n’roll anni ’50 di Smiling (che parla del recente soggiorno in carcere del bassista, Jared Swilley) e Make you mine (che ammicca persino ai Libertines). Dorner party, veloce e nevrotica, dà una rispolverata al caro vecchio spirito punk, mentre Dog years è l’anello di congiunzione con il glam. Boys in the wood, uno dei singoli estratti dall’album, ha un passo bluesy lento e un testo che parla di droghe e alcool fatto in casa. La musica, però, fa decisamente poco scandalo: come nelle altre tracce, le chitarre sono addomesticate, affiancate da altri strumenti (qui i fiati), in generale il lavoro sulla produzione le rende molto più digeribili.

Anarchici e anticonvenzionali i Black Lips non lo sono stati mai, in effetti, ma diciamo che almeno agli esordi avevano un sound meno rifinito. Qui, invece, il lavoro di produzione si sente, persino più che in Arabia mountain. Funny, ad esempio, abbina alla perfezione chitarre e sintetizzatori, ricavandone un mix ipnotico, minaccioso e accattivante. Al pari della rabbiosa Do the vibrate o del country rock incalzante di I don’t wanna go home (con un gracchiante basso distorto), si tratta di un pezzo sostanzialmente innocuo ma indubbiamente chic.

È per questo che Underneath the rainbow alla fine funziona: perché se lo leggi dal punto di vista dell’autenticità è un flop, ma se lo consideri da quello del pop, cioè dell’appeal, del glam, della piacevolezza dei soliti due-tre accordi che si mescolano però in modi un po’ meno prevedibili di quanto non ti aspetti, allora il colpo è (almeno in parte) riuscito. Una manciata di canzoni ben strutturate e arrangiate (e prodotte) con ruffinanaggine, perfette per farvi sentire sul “wild side” anche standovene comodamente seduti sul divano di casa vostra.

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