Quando Paul Thomas Anderson fece uscire nelle sale cinematografiche Magnolia (1999), il film divenne immediatamente l’esempio lampante della sua notevole abilità e curiosità intellettuale. La trama è tanto complessa quanto difficile da sintetizzare, poiché altro non è se non una serie di vite quotidiane che s’intrecciano, un caleidoscopio di personalità che cozzano tra loro.
C’è molta tragicomica quotidianità nel dramma dei personaggi di Magnolia. Gli Stati Uniti dipinti da Anderson (in maniera eccellente) sono il paese dell’esaltazione esasperata per i bambini prodigio, del culto isterico della personalità, del tradimento, della droga, dello stupro, della povertà ma anche del senso del dovere, della lealtà e del coraggio. La vita di un motivatore sessuale, Frank Mackey, sta per essere travolta dalla malattia di suo padre, che l’abbandonò da piccolo; d’altra parte, l’esistenza del poliziotto Jim verrà altrettanto colpita dall’incontro con la cocainomane Claudia, figlia del presentatore televisivo Jimmy. A questi si aggiungono i sensi di colpa della matrigna di Frank, Linda, l’infanzia rubata di Donnie e quella che sta per essere distrutta di Stanley, l’insicurezza dell’infermiere Phil: tutti questi personaggi turbinano attorno ai due principali poli morali della pellicola, ovvero Frank e Jim.
(Tom Cruise in una scena del film)
La conclusione di questo particolare intreccio è affidata a un biblico evento che non sembra turbare più di tanto il proseguimento delle vite dei personaggi, ma funge da riconciliazione finale. La particolarità di Magnolia è data dal fatto che non ci sono attori protagonisti, anche se alcuni sicuramente risultano centrali, ovvero il misogino sobillatore Frank Mackey (Tom Cruise) ed il religioso poliziotto Jim Kunning (John Reilly). Il tema su cui Anderson sembra insistere di più è quello del perdono, un atto che non tutti sono disposti a compiere ma che qui sembra quasi imporsi per la natura stessa degli eventi.
Il finale ha l’effetto di rendere comprensibile la parte iniziale della narrazione e permette di apprezzare la dimensione sociologica ed allo stesso tempo escatologica del messaggio centrale del film. Tirando le somme, Anderson propone un mix originale, il cui unico difetto sembra ormai essere caratteristico dei suoi film: l’eccessiva lunghezza. Una peculiarità non fine a se stessa, ma funzionale, che tuttavia compromette leggermente il risultato finale e lo priva di quel quid in più che il dono della sintesi avrebbe garantito.