Massimo Volume – Aspettando i barbari

Quello dei Massimo Volume è un marchio impresso a fuoco negli anni ’90 più nebulosi ed esistenzialisti, ennesimo parto di un'”Emilia paranoica” che, risvegliata dall’utopia socialista con il fragoroso crollo del Muro, si scopriva popolata di spettri. Lungo i bordi è il titolo dell’album-culto (1995), perfetta rappresentazione del valore liminale insito nella musica del quartetto, di un’angoscia che rimane sempre lì, latente. Quanto a forza, Aspettando i barbari non gli è da meno.

Il sesto disco della band (il secondo dalla reunion del 2006, dopo Cattive abitudini) colpisce duro, con parole e musica incise nel granito di un rock che si sporca spesso d’elettronica. Rispetto ai predecessori, il sound è persino più compatto, grintoso, mai monotono. La ricchezza degli intrecci tra le chitarre di Egle Sommacal e Stefano Pilia, il basso di Emidio Clementi e la batteria di Vittoria Burattini, è di quelle subdole, che agiscono sotto pelle. Esattamente come il recitato di Clementi e i versi del primo singolo, La cena, che sarà pure la ricostruzione (seppur criptica) di certi quadretti familiari autobiografici (via dei Tigli è una strada di San Benedetto del Tronto, dove Clementi è cresciuto), ma il senso d’attesa, e l’ansia che ne deriva, sono indubitabili.

Del resto, il titolo è, dicevamo prima, Aspettando i barbari, e dunque l’impressione è quella di una resa dei conti imminente. L’orizzonte «è in fiamme»: «come spose / ci acconciamo / in onore dei barbari», recita la title-track, e sembra un Deserto dei Tartari rifatto in chiave noir. Tutto il disco è una landa desolata, sulla quale vegliano Vic Chesnutt e Silvia Camagni(omaggiati nelle tracce omonime), John Cage (citato in apertura di Dymaxion song, a sua volta ispirata alla Dymaxion car diRichard Buckminster Fuller) e persino Mao Tse-Tung, immortalato in un sample ne Il nemico avanza. Il nemico, però, non si scopre mai: Clementi scatta le sue istantanee prima che in camera compaia il particolare rivelatore, il dettaglio che consenta di tirare le somme.

Resta così un tremendo senso di vuoto, la paura si congela, e neppure il teatrale commiato di Da dove sono stato (una specie di sabba gelido, in cui sfilano una serie di figure ai limiti della surrealtà) riesce a darle un senso, una reale catarsi. Aspettando i barbari è però tanto aperto all’interpretazione quanto chirurgico nel suono e nella forza delle immagini. Pochi sanno incarnare l’inquietudine come fa Clementi, darle sostanza con visioni dal fascino di rebus; poche band riescono a trasmettere con tanta efficacia il senso di solitudine e l’imminenza del fato (sebbene qui l’aria sia più combattiva e meno rassegnata del solito). Il tutto, al solito, senza intellettualismi fatui, puntando sulla forza di una scrittura che, nel rinunciare alle struttura convenzionale del rock, conserva una forma tutta sua di visceralità. Aspettando i barbari: un ritorno non gradito, di più, fondamentale.

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