M. Night Shyamalan – Il sesto senso

Il dottor Crowe non è più lo stesso di un tempo. Dopo che un suo ex paziente ha fatto irruzione in casa sua, gli ha sparato e si è ucciso, la vita di Malcom è andata a rotoli. La moglie gli parla a stento, e la felicità (anche professionale) sembra essere un ricordo. L’occasione di rimettersi sui binari giusti gli arriva con un nuovo caso, il piccolo Cole, un bambino afflitto da un’inspiegabile disagio.

Nell’aiutarlo ad affrontare le sue turbe, il dottor Crowe comincia lentamente a guarire anche se stesso. È progressivamente costretto a cambiare radicalmente prospettiva, a rimettere in gioco tutto quello che sa. Perché Cole vede i morti, e li vede sul serio, non per modo di dire.

Il sesto senso è il film che diede notorietà a M. Night Shyamalan dopo due lungometraggi (Praying with anger e Ad occhi aperti, rispettivamente del 1992 e 1998) passati sostanzialmente inosservati. Non è un film perfetto, beninteso: la sceneggiatura qualche falla ce l’ha, ma il cinema (horror) non è il luogo per eccellenza della sospensione dell’incredulità? Ecco, Shyamalan stordisce lo spettatore con un finale che segna un memorabile capovolgimento tra reale e fantastico. Soprattutto, però, è bravissimo a creare e gestire la suspense, strappando, da buon discepolo di Hitchcock (che si concede tanto di cammeo), momenti di puro e semplice terrore.

Tutta la pellicola ruota intorno al rapporto tra Cole e Malcom: i due si appoggiano l’uno all’altro, si scambiano i ruoli di guida e paziente. Ridotto all’osso, Il sesto senso è un romanzo di formazione atipico, in cui i fantasmi sono un pretesto per intraprendere un processo di maturazione e, nel caso di Crowe, ossessionato da quel giovane paziente che non è riuscito a salvare, di redenzione. Alla fine, tutto torna: Cole impara a gestire il suo tremendo dono e a riconciliarsi con la madre, e Crowe in un certo senso anche lui si riconcilia, con se stesso e con la sua Anna, la donna che ha sposato e che, scoprirà, non ha mai smesso di amarlo.

Nel racconto si palesa un senso di predestinazione che Shyamalan svilupperà ulteriormente nei successivi Unbreakable (2000) e Signs (2002), trasformandolo però in un surrogato parodistico. Ne Il sesto senso, tuttavia, il fantastico si mantiene entro confini accettabili, evitando che la sospensione dell’incredulità strabordi nel riso involontario. Merito non solo di un copione solido e di una regia intelligente, ma anche del cast, con Bruce Willis a suo agio nei panni dell’analista alla ricerca di una seconda chance, e soprattutto l’enfant prodige Haley Joel Osment, perfetto nell’impersonare un Cole dallo sguardo dolente e sorprendentemente adulto.

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