Marco Bellocchio – I pugni in tasca

«Che croce vivere in questa casa» esclama Leone. È lui il ritardato, ma i suoi tre fratelli sono solo apparentemente normali. Nella cronaca familiare messa in scena nel 1965 da Marco Bellocchio ne I pugni in tasca, Augusto, Alessandro e Giulia sono i rappresentanti di una piccola borghesia decaduta, molto simile a quella ritratta da Francesco Maselli ne Gli indifferenti (1964). Si tratta di una classe corrotta e schiava delle convenzioni sociali, incapace di sfuggire al malessere che l’attanaglia. «Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate» recita Arthur Rimbaud ne La mia bohème: il titolo del primo lungometraggio del regista emiliano è emblematico in quanto evidenzia il desiderio di emancipazione e indipendenza di protagonisti impotenti. Augusto sembra essere l’unico a cercare un’autentica evasione attraverso il matrimonio con Lucia, un vincolo che potrebbe garantirgli quella normalità – che in questo film assume connotazioni dolorose, tetre e diventa paradossalmente la causa scatenante della psicosi dei caratteri – che la sua famiglia continua a negargli. Alessandro e Giulia, invece, rimangono i più repressi, seppur consapevoli vittime di un sistema malato, oppressi dall’inerzia che li imprigiona in una spirale autodistruttiva dalla quale non riescono ad affrancarsi.

L’azione si svolge dentro una casa in cui domina un clima claustrofobico, di morte. La morte è il motivo conduttore di tutto il film: da una parte c’è chi muore sul serio, dall’altra chi continua a esistere, senza tuttavia vivere davvero. I soggetti non sono in grado di relazionarsi in modo sano con l’esterno, mentre assume particolare rilievo l’incapacità di estraniarsi dalle abitudini nocive che costituiscono ormai uno stile di vita. Alessandro diventa l’emblema dell’uomo inetto, che vagheggia una possibilità di mutamento ma che non intraprende azioni definitive e radicali per porre fine al suo stato paralitico.

Il lavoro di Bellocchio appare, per certi versi, un tentativo di superamento di obsoleti schemi mentali, mediante un’inesorabile e fatale presa di coscienza dei personaggi, necessaria per l’avvento di una generazione aperta a nuovi modelli di pensiero e comportamento – non per niente I pugni in tasca è un manifesto anticipatore della contestazione sessantottina. Ottima la performance di Lou Castel, che regala un personaggio in costante bilico fra lucidità e follia, crudele eppure fragile, libero di essere se stesso solo lontano dagli occhi indiscreti dei suoi consanguinei.

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