Alcìde Pierantozzi – Uno in diviso

Giudicare un esordio letterario è crudele, soprattutto l’esordio di un ragazzo di 21 anni; ma i libri qualcuno li deve pur leggere, e il solo finirli o non finirli è già di per sé una discriminante netta tra un libro riuscito e uno non riuscito. Finire questo libro è stata una faticaccia.

Uno in diviso è la storia di due gemelli siamesi, Taiwo e Kehinde. Due busti e un paio di gambe, la vita dei due fratelli si divide tra San Benedetto e Milano, dove si trasferiscono per lavorare in un bordello. Il racconto è spartito in due parti: Uno, che comprende antinferno e inferno, e Diviso, che passa in rassegna i vari gironi infernali per poi approdare a un antipurgatorio. Il viaggio narrativo dei due fratelli è effettivamente una discesa agli inferi: partendo dal rapporto sessuale con un cane, per approdare al parricidio – con annesso cannibalismo – e alle atroci torture inflitte a due giovani sconosciute, i gemelli si ritrovano di volta in volta ad attraversare una soglia che li porta a spogliarsi di ogni moralità.

Le scene sono descritte con una dovizia di particolari degna del cinema splatter, ma risultano completamente prive della tensione tipica dell’horror, restano sullo stomaco e generano soltanto fastidio. Intorno a Taiwo e Kehinde, si agitano poi una serie di figure stilizzate (il nonno, il padre, il signor Buttiglione), che funzionano più per opposizione ai gemelli che per definizione. Gli stessi protagonisti, presentati come due opposti ben identificabili (buono e cattivo), costituiscono un’immagine forzata, rimangono essenzialmente vuoti e tendono a sfumare in un solo personaggio.

Uno in diviso è insomma un lungo esercizio di stile intellettuale e immaginario, in cui la scrittura sembra riferirsi più ai suoi modelli che al pubblico. Il citazionismo esasperante e una riflessione filosofica esageratamente articolata azzoppano un ritmo narrativo già lento e fanno pensare a un lungo sfogo dell’autore, piuttosto che a una volontà narrativa. Temi importanti come la fede, l’aborto e l’omicidio vengono inoltre trattati in maniera talmente fredda e distaccata da far perdere alla discussione qualsiasi tipo di umanità.

Ospite indesiderato in questo infinito dialogo tra lo scrittore e se stesso, il lettore è costretto a rimanere ai margini di un libro in cui non è sentito come necessario.

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