Scott Cooper – Crazy heart

C’è un mucchio di gente che fa un lavoro che non gli piace e non gli è mai piaciuto. Non è il caso di Bad Blake, anche se negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate. Da giovane è famoso, ricco, corteggiato dalle donne, però ha un vizio: beve, troppo. Ai successi professionali si aggiungono ben presto quattro matrimoni falliti, un figlio che non vede da un sacco di tempo e i problemi di salute. A cinquantasette anni, Bad si esibisce in anonimi locali di provincia, proponendo sempre lo stesso repertorio, incapace di reinventare se stesso, come uomo e come musicista. Ormai rassegnato alla sua dipendenza dall’alcool e alla paralisi artistica che l’ha colpito, incontra la giornalista Jean Craddock, con cui intreccia una relazione. La storia gli permette di ritrovare un certo equilibrio, anche se nel vocabolario di Bad “stabilità” è comunque una parola grossa, e a un primo, idilliaco momento segue un inevitabile ritorno alle origini.

Crazy heart non è il film di un riscatto, anche se al pubblico piace spesso pensare che l’amore sia la soluzione a tutti i mali, capace di guarire da deviazioni e malesseri. In parte ci cambia, è indubbio, ma esiste anche una sottile (alle volte quasi impercettibile), eppure sostanziale, differenza tra l’andare incontro a qualcuno e l’allontanarsi troppo da se stessi. Bad ama Jean e pensa che lei gli possa offrire una vita più serena; però, in fondo, lui si piace, così com’è. Come mettere d’accordo le due cose? O meglio, le due cose possono andare d’accordo, oppure è necessaria una scelta, con un’alternativa che esclude l’altra?

Il segreto dell’istintiva simpatia che lo spettatore/lettore (il film è tratto dall’omonimo libro di Thomas Cobb) prova per Bad, risiede nella sua vitalità, amplificata dall’amore per la musica, che lo aiuta a non sprofondare irrimediabilmente nel vizio, e che costituisce un porto sicuro nel quale rifugiarsi dopo ogni puntuale delusione. Anche se Bad è giunto a un compromesso che gli permette, tutto sommato, di vivere una vita piacevole, ogni cosa attorno a lui è reale, concreta, dura e difficile. Siamo lontani dalla Los Angeles onirica e surreale del Drugo Lebowski: questa volta, Jeff Bridges veste i panni di un uomo che si muove in un’America cinica e spietata, che non perdona e presenta sempre il conto per i propri errori. Un’altra faccia del sogno americano, forse la più vera: niente tappeti volanti per sfuggire dalla complessità del vivere quotidiano; niente “viaggi” sulle note di The man in me di Bob Dylan; niente partite a bowling, niente fanciulle rapite da salvare. Solo un palco, una chitarra, un microfono e, soprattutto, un buon bicchiere.

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