David Cronenberg – Cosmopolis

Cronenberg questa volta ha deluso, forse perché tradurre un libro di Don DeLillo non è poi così semplice. In Cosmopolis, il regista canadese riporta quasi per intero i dialoghi del romanzo dell’autore americano, costruendone una poetica esteticamente e visivamente di forte impatto. La città di New York si presenta come in subbuglio e l’era del capitalismo sembra avvicinarsi alla conclusione. Il giovane miliardario Eric Parker (interpretato da Robert Pattinson) esce dal lussuoso attico a tre piani e sale sulla limousine bianca per andare a tagliarsi i capelli a Hell’s Kitchen. È l’inizio di un lungo e disperato viaggio attraversando tutta Manatthan, con in testa il pensiero ossessivo del valore in borsa dello yen. Una discesa all’inferno, mentre intorno esplode la sommossa popolare.

Cronenberg è il regista del corpo. Qui è il corpo del giovane Parker ad incarnarsi nella salita e nella discesa delle finanza, nella macchina e nella metropoli. Il regista canadese cerca di narrare l’accelerazione della contemporaneità, ma i dialoghi serrati rendono il film faticoso da seguire e le riprese risultano statiche. Più Robert Pattinson sprofonda verso la periferia, la delusione e le imperfezioni, e più il film diventa difficile da interpretare. Lo spettatore rimane vuoto, come vuoto è lo stesso Parker. I corpi questa volta fanno spazio alle prolissità delle parole. Cosmopolis è una pellicola impregnata di decadenza, con qualche recupero dei primi film di Cronenberg (Videodrome, Crash), ma che poi si perde nella perversione di un discorso senza fine.

La mano ferita di Parker contiene tutto il dolore della sua vita. I titoli di testa sembrano una citazione dell’azione del dripping di Pollock e si chiudono con la monocromaticità di Rotko. Lo spettatore emerge con una parola, mentre sprofonda con una sillaba in un cortocircuito di sconnessione e mancate conclusioni. Una sfida, quella di recuperare la letteratura americana di DeLillo, che Cronenberg purtroppo perde: il film sembra ovattato, artificioso, come la limousine acusticamente isolata dal mondo che scivola nelle strade. Una fusione di grado patologico, che descrive Parker immerso tra le previsioni virtuali e finanziarie della borsa e l’oppressione del senso di morte che lo avvolge in tutto il lungo e problematico viaggio. Cronenberg turba, crea problemi, ma non consegna riflessioni adeguate: piuttosto provoca un incredibile mal di pancia per i troppi dialoghi e il poco coraggio di azzardare. Una partita persa, che si distacca dallo straordinario A dangerous method (2011). Troppe patologie e poca analisi junghiana e troppi topi immaginati come «unità monetaria del prossimo futuro».

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