Van Halen – A different kind of truth

Avevamo quasi perso le speranze. In fondo, non sembrava vero di ritrovarci tra le mani un nuovo album targato Van Halen. Forse perchè tra mille tribolazioni, ansie, incompresioni, notizie più o meno vere o più o meno false, sembrava un appuntamento destinato a non doversi concretizzare mai. Ritorni del genere, si sa, non sono mai facili e la band pareva destinata a rimandare tutto per l’ennesima volta. Ed invece no. Eccolo qua A different kind of truth, con una copertina abbastanza brutta e ben tredici canzoni da offrire ai propri fan e agli appassionati del genere. E non finisce qui: la formazione, dopo ben quattordici anni, è pronta a partire per un lungo tour, che toccherà i più svariati angoli della Terra.

Le attese erano tante, com’era prevedibile. I Van Halen appartengono alla generazione delle rock band d’assalto, quelle di tanto tempo fa, quando c’erano ancora i frontmen scatenati e carimastici (vedi David Lee Roth), i fumamboloci assoli dei guitar-hero (Eddie Van Halen ne è probabilmente una delle massime incarnazioni) e soprattutto quando il rock era un genere in crescita esponenziale e fortemente calato nella realtà circostante. Altri tempi, sì. E probabilmente è questo il motivo dell’attesa e della curiosità pungente che accompagna l’uscita del dodicesimo disco di studio della band. Cos’hanno da offrire i Van Halen a quest’epoca in cui il rock più genuino latita e il fallimento del music business ormai è sotto gli occhi di tutti? C’è ancora spazio per un trionfo, come nel pieno dei fasti degli anni Ottanta? Domande forse marginali, ma di sicuro interesse per contestualizzare lo scenario in cui vanno a inserirsi queste nuove canzoni.

A livello contenutistico A different kind of truth affonda le radici molto indietro nel tempo. Alcune canzoni, infatti, provengono dalla fase preistorica della band, quella antecedente allo stesso omonimo debutto del 1978: si tratta di pezzi incompiuti, conservati negli archivi della band e ora donate a nuova vita. Altre track, invece, sono totalmente nuove. Una sorta di punto d’incontro tra un passato molto remoto e il presente, insomma. Il primo assaggio dell’opera, affidato al singolo Tattoo, non lasciava molto spazio alle lodi e alle attestazioni di stima: canzone brutta, intonata dalla voce sghemba di David Lee Roth e gonfiata da un ritornello pop esageratamente fuori misura. L’unica delizia per le orecchie è il buon lavoro in termini di riffing sul brano e, a metà canzone, l’assolo alle sei corde di Van Halen, neanche troppo spinto a dire la verità, ma dotato pur sempre di quel sound tutto suo, che ha segnato indissolubilmente un’intera generazione di chitarristi. Viste le premesse, dunque, non c’era da aspettarsi niente di particolarmente significativo. Eppure, per fortuna, c’è molto altro.

Nelle restanti canzoni dell’album, infatti, la band marcia in forma smagliante, supportata dai precisi ricami del producer John Shanks. Inutile dire come sia il chitarrista olandese a dettare i tempi e definire le dinamiche della brani, e malgrado certi refrain risultino leggermente artefatti, per un tentativo costante di sciorinare una sorta di pop iper-robusto, le sfumature e le scosse energiche che provengono da canzoni come China town, introdotta da un susseguirsi di note elettriche e sfuggenti di stampo quasi neo-classico, non lasciano spazio a dubbi: i quattro sono tornati in gran forma, e perfino la voce di Lee Roth sembra non mostrare le inevitabili abrasioni del tempo. Il suono è costantemente asciutto, privo di inutili orpelli: niente sintetizzatori e niente arrangiamenti ruffiani, in nome di uno stile ruspante e grezzo. Si fanno largo così, episodi prepotenti e ruvidi come She’s the woman e Outta space, introdotte entrambe da uno sferzante tappeto di schitarrate hard-rock, mentre in As I e Bullethead la sezione ritimica, affidata ad Alex e Wolfgang Van Halen, aumenta vertiginosamente di potenza, donando ad entrambi i brani una notevole scarica di andrenalina. Di grande rilievo anche gli sfoghi nervosi di The trouble with never, che richiama le esplosioni rock della Jimi Hendrix Experience.

Nell’epoca in cui le rivoluzioni stilistiche sembrano essersi azzerate, i Van Halen si dedicano a ciò che sanno fare meglio, ovvero essere semplicemente se stessi. Nessuna rivoluzione epocale, dunque: solo una manciata di ottime canzoni, grinta e un’ispirazione finalmente ritrovata. In definitiva, A Different kind of truth non sarà sicuramente un album attuale (e visti i tempi forse è un vanto), ma siamo davvero contenti di aver ritrovato i Van Halen, soprattutto a questi livelli.

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