Paolo Sorrentino – This must be the place

In Al di là del bene e del male, Nietzsche scrisse: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio». E ancora: «Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà». La maschera, dunque, come elemento che “protegge” la verità e che, al tempo stesso, adoperiamo per occultare la realtà, per fuggire da essa. Un modo come un altro, insomma, per ripararci dal mondo, ostacolarne l’ingresso nelle nostre esistenze, perpetrando per noi stessi e per gli altri una finzione patetica, ostinata, ottusa – come se fosse possibile impedire alla vita, alla Storia, di rompere il guscio della menzogna.

Cheyenne, ex rockstar in declino, è una maschera. Lo è innanzitutto per via dello spesso strato di cerone che gli copre i lineamenti, del rossetto, degli occhiali scuri, dei capelli nero corvino che ricadono quasi a raggiera, dell’espressione sbigottita eppure capace di colorarsi di tragica intensità. Chiuso nel suo buen retiro dublinese, coccolato da una moglie-mamma e con un’amica poco più che adolescente, trascina pigramente la propria povera carcassa ignaro della prigione dorata in cui vive. Per lui il tempo si è fermato agli anni ’80, a quando scriveva canzonette depresse perché «andavano di moda» ed inseguiva testardamente il successo per compiacere un padre che non l’amava o non l’amava abbastanza. Non è mai diventato un uomo, Cheyenne (ecco perché, gli dice qualcuno, «non hai mai imparato a fumare»): dietro quest’immagine a metà tra Robert Smith e Alice Cooper si nasconde un bambinone, un freak preadolescente proprio come il burtoniano Edward Mani di Forbice. Ma l’occasione per affrontare i propri demoni si presenta, implacabile, sotto forma di telefonata: il vecchio genitore, da tempo malato, muore improvvisamente. Ebreo di nascita, scampò miracolosamente allo sterminio nazista. In un diario aveva raccontato del suo tentativo di rintracciare uno degli aguzzini del campo di prigionia in cui era rinchiuso, resosi colpevole di un’umiliazione pubblica. Cheyenne, allora, decide di partire alla caccia dell’ex gerarca, ormai novantenne.

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Il tentativo è, ovviamente, quello di approdare ad una riconciliazione postuma col padre, un modo come un altro per sanare, seppur in ritardo, una ferita ancora aperta. Ma non solo: il viaggio che il nostro svanito eroe intraprende per l’America di provincia assume una valenza più profonda, esistenziale, quella di una pacificazione generale con la vita. Il tentativo, insomma, è strapparsi di dosso la maschera e scendere in profondità, abbandonare la superficialità di un’esistenza vissuta prima sotto i riflettori e i flash dello show-biz e poi in un eremo autoinflitto per toccare con mano la brulicante, frenetica e sfaccettata natura stessa dell’essere umani. E qui Sorrentino si concede una serie di divagazioni che tingono questo bizzarro impasto di road-movie e Bildungsroman di una poesia dell’umile, del quotidiano (memorabile, ad esempio, l’incontro di Cheyenne con l’inventore del trolley), senza risultare per nulla stucchevole.

La parabola personale del protagonista si inscrive, ovviamente, nel cerchio della Storia: l’olocausto, il dramma della Shoah, ma anche l’America obamiana della crisi economica, smarrita eppure speranzosa, proprio come questa specie di Forrest Gump travestito da eroe dark che l’attraversa in lungo e in largo. In un finale meraviglioso, all’insegna della ricomposizione pacata, non forzata, dei conflitti, Cheyenne (finalmente struccato e conciato da adulto) ritrova il sorriso, proprio come la vecchia amica che alla finestra attende, invano, il ritorno del figlio scomparso da tempo. Un sorriso luminoso e dolce, irresistibile. E muto. Parlano le immagini in This must be the place. Non mancano i dialoghi, essenziali, asciutti, giocati sul filo sottile dell’ironia, ma hanno la meglio l’espressività dei volti, colti implacabilmente in tutto il loro disfacimento, in tutta la loro vecchiaia, gli sguardi, le pose plastiche, i colori, i tagli della luce. Il regista ha imbastito un grande racconto, a suo modo epico, che tuttavia si nutre di dettagli, gioca ad accumulare sequenze, frammenti, lasciando che queste trovino quasi autonomamente un accordo, l’incastro corretto. L’insieme non è slegato, affatto: un senso di armonia pervade tutta la pellicola, come se la narrazione fluisse spontanea, ammantata di un candore che redime tutto, persino la crudele vendetta finale del protagonista.

Sorrentino, insomma, si conferma tra gli autori più talentuosi in circolazione. Nelle sue mani sapienti, abili come poche nel maneggiare la cinepresa, la sceneggiatura scritta a quattro mani con Umberto Contarello (Marrakesh express, Luce dei miei occhi), con la complicità della (straordinaria) fotografia di Luca Bigazzi, si trasforma in una parabola di formazione dolceamara, nobilitata dall’interpretazione di tutto il cast, nel quale svetta ovviamente Sean Penn, capace di alternare impercettibilmente sul volto del suo Cheyenne sarcasmo, tenerezza, dolcezza, rabbia e dolore, quel dolore che tutti ci portiamo dentro e col quale, prima o poi, maschera o non maschera, siamo chiamati a fare i conti.

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