David Cronenberg – A Dangerous Method

La realtà, per David Cronenberg, non è quella che viviamo, ma quella che mostriamo (Videodrome, 1982): con A Dangerous Method il regista tenta di rovesciare l’assioma, iscrivendo la realtà vissuta nella nostra psiche, nei nostri sogni e nelle nostre visioni.

A Dangerous Method è puro Cronenberg. Il canadese spiazza lo spettatore, perché questa volta non è il suo solito cinema materico, ma è molto di più (o forse molto di meno?). L’autore di History of violence, maestro nel tessere la trama dell’irrevocabilità del male e della violenza dove la schizofrenia sorregge il territorio della realtà/apparenza, per la prima volta abbandona il corpo (“body-horror”), la sua sporcizia, i suoi mutamenti e i suoi conturbamenti. Per Cronenberg il cinema è sempre stato immagine, suono, ma soprattutto linguaggio corporeo. A Dangerous Method ci invita a scrutare invece le nostre patologie psichiche. Il paziente stavolta è lo spettatore e lo psicanalista è il regista canadese.

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Cronenberg si ispira ad un libro di John Kerr, psicologo clinico newyorkese, il quale si basa sulla scoperta di un carteggio del 1977 in cui si ricostruisce il rapporto tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, i due terapeuti che hanno rivoluzionato la cultura occidentale e la disciplina psichiatrica; la sceneggiatura è tratta da un testo teatrale di Oscar Christopher Hampton, The Talking Cure.

Due metodi, due punti di vista complessi che si contrappongono in modo complicato, quelli del padre della psicanalisi Freud (Viggo Mortensen) e del geniale e visionario allievo Jung (Michael Fassbender), alla vigilia della Prima guerra mondiale. A minare il rapporto tra i due è la diciottenne ebrea Sabine Spielrein (Keira Knightley), la quale apre il film presa da convulsioni ed isterie, fino a quando, nell’ospedale di Burgholzli di Zurigo, non diventa paziente di Jung, che sperimenta su di lei «il metodo pericoloso». Sabine riporta in vita i ricordi della violenza del padre e si eccita ogni volta in cui un segno, un gesto, fanno rivivere il ricordo (il bastone che batte sul mantello). Esplode così il rapporto passionale amante/curante tra Carl Gustav e Sabine: il primo si abbandona alla libido tra le braccia della seconda, attratta dal masochismo più sfrenato, confermando così le teorie freudiane che stabilivano una correlazione fra sessualità e disordini di carattere mentale.

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La Spielrein diventa veicolo epistolare di idee e stima reciproca tra Freud e Jung, rapporto che si snatura nel viaggio verso l’America. Durante la traversata nell’oceano, i due psicanalisti (padre/figlio, professore/allievo, dottore/paziente) si raccontano i sogni, investigandosi nelle più oscure complessità; e proprio quando Freud rinuncia a raccontare un sogno, rischiando di mettere a repentaglio la propria autorità, Jung dubita della stima che nutre nei confronti del suo maestro. Le lettere diventano terreno di accese controversie e Sabine si trasforma in una sorta di “metronomo terapeutico”, trasformandosi, al tempo stesso, in un’eccellente studiosa del rapporto libidinale tra sesso e morte.

Un film lineare, preciso, attento, metodico quello di Cronenberg, forse anche troppo uniforme, ma senza il rischio di precipitare nelle visioni oniriche di Jung (K. G. Jung, Libro rosso, Bollati Boringhieri 2010). Il cinema di Cronenberg si fa strumento analitico e le poltrone rosse della sala diventano lettini da seduta psicanalitica. Freud rimane legato al corpo, mentre Jung lo abbandona e lo nega verso una forma di “sciamanesimo”. Un cortocircuito, quello cronenberghiano, in cui per la prima volta siamo noi che ci scopriamo “malati” alla ricerca della “talking cure”, anche se pericolosa. L’esercizio di stile di Cronenberg spoglia l’anima e non ci salva dalla “malattia”.

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