George Miller – Mad Max: Fury road

Era il 1985 quando uscì l’ultimo capitolo dell’indimenticabile trilogia di Mad Max, tre film che diedero vita non solo ad un nuovo genere cinematografico in grado di influenzare un immaginario culturale che va da Ken il Guerriero a Fast & Furious, ma soprattutto ad un nuovo modo di intendere il blockbuster. Nel frattempo George Miller si è accontentato di essere nominato all’Oscar per L’olio di Lorenzo, di produrre Babe, maialino coraggioso (e sequel annesso) e di vincere un Oscar per il miglior film d’animazione per Happy Feet (e sequel annesso). Un ritmo produttivo alla Malick per un regista che non è mai riuscito a trovare il suo vero posto a Hollywood. Ci ha messo 30 anni quindi, il regista australiano, per tornare laddove tutto ebbe inizio, ovvero alla sua creatura più rivoluzionaria e innovativa. Ed è come se in tutti questi anni fosse stato tenuto incatenato, come se non vedesse l’ora di rituffarsi nel suo folle mondo, tanto è l’entusiasmo che si respira ad ogni singolo fotogramma di Mad max: Fury road.

 

In un futuro in cui manca l’acqua e l’elettricità, Furiosa (Charlize Theron) si ribella alla dittatura di Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne) scappando con le sue cinque mogli tenute prigioniere. Nella fuga, il gruppo sarà aiutato dal guerriero solitario Max (Tom Hardy) che cercherà di condurle alla ricerca della speranza e della redenzione. La trama è semplice ed è chiaro che sia un mero pretesto in funzione dell’azione, ma i riferimenti all’interno della sceneggiatura sono tutt’altro che superficiali ed aprono discorsi sulla fine del capitalismo e su una sorta di rinascita femminista che prenda origine dalle donne (la Theron è chiaramente la protagonista non accreditata della pellicola), per i quali non basterebbero le 2800 battute imposte.

 

 

Ipnotico, eccessivo, anarchico, frenetico, grottesco, selvaggio, rumoroso, avvolgente, cento aggettivi non sarebbero sufficienti per descrivere il film: un’esperienza sensoriale fuori dal comune per un carnevale di suoni, colori, movimenti, sensazioni. Straordinaria per come riesce a gestire questo magma ininterrotto di inseguimenti, fiamme, polvere, metallo, gomme, sangue, proiettili, la regia di Miller esalta il dinamismo, la fisicità, le coreografie non perdendo mai, pur nel suo grande sfoggio di effetti digitali, il contatto con la materia e con i piccoli particolari. E accompagnato da una partitura epica e rock allo stesso tempo, disegna un affresco che assomiglia ad un enorme musical post-apocalittico e che omaggia gli anni ’80 mantenendo intatta la sua moderna radicalità. Quello di Miller è in poche parole uno di quei film che segna inevitabilmente l’estetica del cinema moderno e che sarà di riferimento per tutto il cinema action degli anni a venire.

 

Popolato da personaggi folli e freak talmente potenti da non avere bisogno di una storia alle spalle, Mad Max: Fury road è in sostanza il più grande film di serie B mai realizzato, per il suo essere fieramente sopra le righe, ma sopratutto per la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di tangibile, di reale, di vero (grazie all’eccezionale lavoro sulle scenografie, sui costumi e sul make-up). Cinema spartiacque (ci sarà un prima e un dopo MMFR) che ci consegna almeno una ventina di scene cult ed altrettanti personaggi memorabili. C’è un nome che si usa di solito per questo tipo di film: capolavoro.

 

 

 

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