Kasabian – 48:13

«Abbiamo creato una droga pericolossisima», ha detto Tom Meighan riguardo al nuovo disco dei Kasabian, 48:13. «È rock’n’roll, è ruvido e tagliente, ma siamo tornati all’elettronica e siamo andati oltre. Che altro possiamo fare? È un proiettile d’argento, amico. È fantastico». La sensazione è che tanto entusiasmo sia genuino. In fondo, è innegabile che ad ogni uscita discografica, i Kasabian cerchino di alzare il tiro, mescolando le carte, facendo la spola tra rock ed elettronica, tra Madchester, il glam e il brit rock più tradizionale. Insomma, la band inglese (almeno a parole) dà la sensazione di non volersi mai accontentare, di voler andare sempre oltre. Il punto, però, è che all’atto pratico ogni rivoluzione sbandierata si traduce in dischi più o meno convenzionali. Piacevoli, accattivanti, sicuramente ben fatti, ma non da farti strappare i capelli.

Stesso discorso per 48:13. Impacchettato con furbizia (in senso lato: vedi la campagna pubblicitaria, con i murales ed ora perfino la presentazione in tram, a Milano), è un album altrettanto sagace nel riciclare gli stereotipi del pop e del rock albionico. Eez-eh, ad esempio, è il loro singolo prototipico: ritmi da dancehall, attitudine (punk)rock, una melodia che ti entra nel cervello e non ne esce più, e un testo che è un guazzabuglio che va da Google allo scandalo della carne di cavallo. Tutto perfettamente cesellato, dai beat che sembrano pescati dal decennio scorso alle tastierine acide ai coretti sballati: lasciarsi abbindolare così è piacevole, e il piedino, durante l’ascolto, altroché se si muove sotto il tavolo.

Però Meighan e Pizzorno si sforzano seriamente di fare qualcosa di più. Al di là dei brevi strumentali sparsi qua e là ad intervallare le tracce, tra cui svettano lo spaziale (e bowiano) (shiva) e (mortis), una personale riedizione dei temi morriconiani per gli spaghetti western, ci sono pezzi come Treat a confermare una sana ambizione che non prescinde mai dall’immediatezza. L’architrave è un basso oscuro e distorto, eppure groovy, su cui si leva una costellazione di suoni tastieristici e le schitarrate distorte della chitarra; nella seconda metà, il pezzo cambia pelle e vira più decisamente sull’elettronica, con una lunga divagazione prevalentemente strumentale. E a proposito di minimalismo, Explodes ne è un ottimo esempio, con in più l’aggiunta di un verso efficace come «You would rather die on your feet than live on your knees».

Più fragorosa Clouds, che apre come certi strumentali di John Carpenter e poi vira su un mix beatlesiano di chitarre ed archi. Che la potenza non difetti ai Kasabian, anche in un disco più elettronico come questo, lo dimostra Bumblebee, che sta tra gli Happy Mondays e il crossover metal. Perfetta per l’headbanging e i grandi festival, insomma. Al contrario, Bow (guidata da un arpeggio di chitarra acustica) tende alla malinconia.

Alla fine, ha ragione Meighan, quando, in s.p.s. si chiede «Non siamo stati bene?» (e attacca un numero degno dei Oasis). Sì, siamo stati bene, anche se la rivoluzione la rimandiamo al prossimo album.

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