ZZ Top – La futura

Nove anni non sono uno scherzo: sono un arco di tempo davvero lungo, soprattutto per una band come gli ZZ Top, la cui produzione artistica è stata spesso animata da ritmi serrati. Nel luglio del 2011, Billy Gibbons aveva preannunciato dalle colonne di «Mojo» l’intenzione di pubblicare un disco ambizioso, sorprendente, un incrocio tra il sound di Tres hombres (1973) ed alcuni elementi di Eliminator (1983). Vista la portata di tale affermazione, che chiamava in causa due tra gli album di maggiore qualità del trio, ci si aspettava che le nuove canzoni dei texani provocassero una sorta di terremoto sonoro. Ed invece, purtroppo, le premesse si sono rivelate fasulle.

Il ricettario della band si avvale degli ingredienti di sempre: un hard-blues suonato con grande cura e maestria, supportato da un’interpretazione divertente, ma che stavolta, contrarialmente ad altri episodi (anche recenti) nella discografia di Gibbons e soci, pare fin troppo conservatore e, soprattutto, carente sul piano della scrittura. Sia chiaro, gli ZZ Top non hanno mai cercato di fare i rivoluzionari o di porsi in posizione di alternativa rispetto ai classici canoni del rock, anzi: Gibbons, Dusty Hill e Frank Beard hanno sempre suonato musica orgogliosamente ancorata alle radici, rifiutandosi di cercare a tutti i costi il brivido della sperimentazione. Stavolta, però, il songwriting sembra atrofizzato, al punto tale che i nostri in Chartreuse finiscono quasi per autoplagiarsi, citando il riff che apriva la bellissima Tush. Inutile, perciò, cercare in queste tracce un nuovo piccolo classico, o qualcosa che abbia la qualità di, tanto per dire, Beer drinkers & hell raiser o Just got paid (riletta meravigliosamente anche dai Mastodon in un recente album tributo). Flyin’ high apre con un riff palesemente derivato dagli AC/DC, mentre l’interpretazione vocale in Have a little mercy è il solito omaggio al maestro John Lee Hooker: davvero poca roba. Perfino un producer come Rick Rubin appare confinato in un angolo, sopraffatto da una manciata di canzoni a cui non riesce ad apportare nessuna ventata di freschezza.

Dall’alto di cinquanta milioni di copie vendute in tutto il mondo, i texani dormono sogni tranquilli, trincerati nei loro clichè e in certe rigidità stilistiche che oggi suonano un po’ fastidiose. Forse è solo pigrizia e nient’altro; ma a guardare nello stesso recinto musicale, altri act mostrano uno stato di salute migliore rispetto agli ZZ Top oggi: Black Keys, The Dead Weather, Band of Skulls, per esempio, tutte formazioni giovani e spigliate, in grado di attualizzare la lezione del blues con grande abilità. Insomma, lo scettro di difensori del boogie non è più tra le mani di Gibbons, Hill e Beard, questo è certo. La futura è un disco fiacco. Verrebbe quasi voglia di non crederci, ma i tempi di Rio grande blood e Fandango! sembrano proprio finiti.

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