Albrecht Goes

La guerra “umana” di Albrecht Goes: intimità, uomo e colpa in Notte inquieta

Notte inquieta è certamente l’opera più famosa di Albrecht Goes, intellettuale tedesco nato nel 1908 a Langenbeutingen e morto a Stoccarda nel 2000.

Questo racconto, pubblicato per la prima volta nel 1950, è stato riproposto dalla Marcos y Marcos in una deliziosa edizione, la seconda dopo quella del 2007. L’autore ci porta senza indugi nel clima della Seconda Guerra Mondiale, raccontandoci questa piccola ma grande storia attraverso gli occhi e le parole di un cappellano militare che deve assistere un condannato a morte.

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La trama

Una notte di ottobre del 1942, la sera prima dell’esecuzione, il cappellano si trova in una locanda di Proskurov gremita di militari, dove divide la stanza con un capitano in partenza per il fronte di Stalingrado.

Proprio in quella stanza Melanie sale di nascosto per abbracciare per l’ultima volta il suo amato capitano, e mentre i due si appartano, il cappellano è intento nello studiare la storia dell’uomo che verrà fucilato il giorno seguente.

Pastore e condannato si diranno addio come amici, qualcuno partirà per Stalingrado, e un senso di giustizia assoluta accompagna il finale del racconto.

La Notte inquieta di Albrecht Goes

Albrecht GoesAlbrecht Goes conosce bene la realtà della guerra, e quest’opera sembra in effetti poggiare le basi nelle esperienze personali dell’autore, ordinato pastore protestante nel 1930 e cappellano militare durante la guerra. Nel 1953, poi, Goes lascia il sacerdozio e si dedica alla scrittura, dimostrando tutte le sue capacità di teologo e libero pensatore. Appare evidente come, specialmente nell’opera qui in oggetto, lo scrittore trasferisca questo affascinante incontro tra l’esperienza tragica della guerra e il suo rapporto con la religione.

Da questo fondersi nasce una scrittura che si riempie di umanità, andando oltre il solito racconto ma ricercando negli eventi l’intimità e il senso più profondo. Albrecht Goes scrive quindi la guerra “in chiave umana” potremmo dire, quasi rendendole un valore spirituale, ricercandone il significato più profondo attraverso le singole storie personali e i pensieri più nascosti. «Quel giorno di vento, profondamente azzurro, dovevo pur godermelo […] avevo voglia di camminare per i sentieri […] Tutt’intorno, silenzio; appena il soffio del vento, non una voce umana, solo quella della mia solitudine che parlava a se stessa: benvenuto autunno! benvenuta, libertà!» La guerra entra con forza nella giornata del cappellano; la chiamata all’esecuzione sconvolge i suoi programmi di solitudine, frena la sua voglia di libertà. Ecco un primo confronto tra la serenità e il suo opposto: la guerra. Nel descriverla l’autore, per bocca del cappellano, non ci mette mai di fronte alla crudeltà delle armi o a scene di conflitto, ma ci descrive la quotidianità al di là del campo di battaglia:

Qui, dietro queste porte. Qui si sta distesi sulle brande, si sospira, si ama, si muore, si scrivono lettere, si gioca a scacchi, all’alma, a carte. Si fanno iniezioni intramuscolari o endovenose: Ebusin, Cardiazol. Si compilano elenchi di permessi e congedi, di promesse che non vengono mantenute. Si beve, si fuma, si parla grasso. E c’è chi scrive le “storie” dei malati […] Elenchi degli arrivi e delle partenze. Elenchi delle paghe, delle trattenute, dati.

La guerra di Goes si combatte quindi in mezzo alle persone, e si contrappone alla bellezza delle loro vite: «La rigidità militare con la quale si presentavano era esagerata e veramente fuori luogo; ma è più facile che si spezzi l’esistenza, piuttosto che s’interrompano certe formalità». Un concetto ancora più marcato se si pensa che nell’intero racconto c’è quasi la volontà di mantenere due mondi ben distinti tra loro: la guerra, appunto, e le singole vite delle persone sia vicine che lontane dai cannoni: «come se nel profumo di quella notte d’ottobre, in quel dolce profumo di vento umido, ritrovasse un contatto con la sola realtà durevole e buona rimasta intorno a noi». Le persone sono il punto di partenza e il nocciolo vero di questo racconto, attraverso i loro gesti il conflitto si avvicina a noi e viene reso umano, spirituale:

È questo, la guerra. Può anche succedere di esser trasferito da Oriente a Occidente attraversando la città dove sei nato, senza nemmeno poter scendere dal treno. E tu te ne stai appoggiato al finestrino e vedi passare il balcone di casa tua. Magari hai fortuna: tua moglie sta stendendo la biancheria, ne puoi scorgere il vestito rosso e i capelli neri. Mi immergo nei pensieri e non mi rendo conto che stiamo viaggiando tra le case.

La stessa stanza della locanda dove pernotta il cappellano, e dove si incontrano il capitano con la sua amata, rappresenta in fondo proprio un rifugio alla realtà esterna della guerra, un’alcova all’interno della quale è l’amore a trionfare: «Questa è la dolcezza dell’amore: le ore diventano anni. E questa è la saggezza dell’amore: l’attimo si fa lungo come un anno. Hanno una notte sola, quei due. Ma vuol dire: per sempre». Un concetto, quello dell’amore che vince sulla guerra, che ritorna spesso nel racconto: «lo studio dell’incartamento Baranowsky, era altrettanto capace di contenere tutto un uomo come lo sono le braccia di coloro che si amano». Se è vero che l’autore ha come punto di partenza l’intimità di ogni singola persona, è proprio il rapporto tra il cappellano e il condannato a morte che ce ne dà dimostrazione. Attraverso le carte e i documenti il pastore vuole a tutti i costi arrivare a trovare un contatto con il detenuto: «Ma dietro tutto questo doveva ben esserci una storia, un certo corso di avvenimenti. E forse valeva la pena di saperla, quella storia; conoscerli, quegli avvenimenti […] Dunque questa è la cronaca di quella vita. Ma quale sarà la storia intima?». Dove non arrivano i documenti arriva l’immaginazione, la fantasia. E così il cappellano cerca di immaginare pensieri, sensazioni ed emozioni del condannato. Ecco che quindi ritornano i concetti di umanità e di continua ricerca dell’intimità. Non è un caso che Albrecht Goes ponga al lettore quella che molti altri intellettuali hanno chiamato “la questione della colpa”, la responsabilità di tutti coloro che hanno assistito alle follie naziste, senza opporre la minima resistenza.

La questione della colpa

Questa è l’amara verità: siamo dei complici, il sabba delle streghe ci troverà tutti colpevoli, tutti quanti. […] La nostra colpa è quella di vivere. Ora dobbiamo vivere con questa colpa. Poi, un giorno, quando sarà passato tutto, la guerra e Hitler, allora avremo un nuovo dovere e saremo leali a quello. Allora ci occuperemo della realtà interiore di tutto ciò che avviene ora e della guerra in genere. Non si tratterà di odiare, allora, la guerra. L’odio, se si può dire così, è un sentimento positivo. Bisogna sconsacrare la guerra. Toglierle ogni incanto. Bisogna inculcare nella coscienza umana la certezza di come sia banale e laido questo mestiere di soldato […] noi dobbiamo sapere che lavorare con una pala e una zappa è più onorevole che andare a caccia di decorazioni. Dobbiamo dire che la guerra è sudore, pus, orina. Dopodomani lo sapranno tutti e lo sapranno per qualche anno. Ma lasci che passi un decennio e vedremo di nuovo crescere i miti, come gramigna. E allora ciascuno di noi dovrà essere al suo posto, con una buna falce.

Il problema della colpa trova in effetti tra gli storici e i letterati ampio spazio di analisi. Karl Jaspers distingueva in merito quattro diversi tipi di colpa: criminale, politica, morale e metafisica. Le ultime due sembrano essere direttamente collegate alla discussione qui affrontata. L’autore definisce infatti la colpa morale «la responsabilità morale per quelle azioni che compie come individuo […] anche per le azioni di ordine politico e militare. In nessun caso vale la scusa che ‘gli ordini sono ordini’. […] i delitti rimangono sempre delitti, anche quando vengono ordinati […] così ogni azione resta sottoposta anche al giudizio morale. L’istanza è qui la propria coscienza». Così, invece, Jaspers si esprime sulla colpa metafisica:

Una solidarietà la quale fa sì che ciascuno sia in un certo senso corresponsabile per tutte le ingiustizie e i torti che si verificano nel mondo, specialmente per quei delitti che hanno luogo in sua presenza o con la sua consapevolezza. Quando uno non fa tutto il possibile per impedirli, diventa anche un colpevole […] in un senso che non può essere adeguatamente compreso da un punto di vista giuridico, politico e morale.

Nell’opera di Goes la questione della colpa si unisce chiaramente a tematiche e concetti religiosi: «Come servo del Vangelo – per questo ero stato chiamato qui – dimostrai quale fosse il mio posto: dalla parte dei vinti. La verità del Vangelo o la follia del mondo, la sua ironia e il suo furore. Testimoniai di quella realtà». L’autore lavora molto, in questo racconto, con il concetto di “doppio”, di opposizione. Emblematico un passo in cui il cappellano si relaziona al condannato:

Dovevo lasciarlo libero di dire tutto quello che voleva; ma, al tempo stesso, quella conversazione, dovevo guidarla. Perché si trattava di due cose: la morte e l’eternità. La morte è libertà, ma l’eternità è impegno, la partenza è dolore, ma l’arrivo è gioia. Che strano avere di fronte a sé questo dovere.

E questo concetto della duplicità risulta ancora più evidente quando Goes affronta il tema del bene e del male: «Poi, a un tratto, mi sembrò che il male che tanto mi feriva fosse piuttosto quella parte di noi, irrisolta, che non sappiamo dominare». Sembra quasi che lo scrittore tedesco si rifaccia a Pascal, grande filosofo che ha fato del concetto della duplicità dell’uomo, della grandezza e della miseria umana, un elemento essenziale della sua poetica. L’idea è che l’uomo sia alla mercè di forze extrasensoriali, che corrompono e distorcono il suo giudizio, «un atomo sommerso e come sperduto nel vasto mare dell’essere, tra i due estremi dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo», incapace di intendere i principi delle cose ed il loro fine. Come dice lo stesso Pascal, l’uomo «si vede come sperduto in questo remoto angolo della natura […] Che cos’è un uomo nell’infinito?». Questa posizione di precarietà nei confronti della natura è evidenziata in maniera ancor più esaustiva dal seguente pensiero del filosofo:

Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: egualmente incapace d’intendere il nulla donde è tratto e l’infinito che lo inghiotte. Che farà, dunque, se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle cose, in un’eterna disperazione di conoscerne il principio e il termine? Tutte le cose sono uscite dal nulla, e vanno sino all’infinito. Chi seguirà quei meravigliosi processi? Solo l’autore di quelle meraviglie le comprende; nessun altro lo può.

L’uomo, dunque, è la somma di forze positive e negative che lottano tra loro, è angelo e bestia allo stesso tempo, è bene e male in un corpo solo.

Notte inquieta è quindi un racconto di straordinaria originalità in cui l’aspetto umano e intimo trionfano sui conflitti e sulla crudeltà. Da una stanza nasce l’amore e dentro a quattro mura ci si può isolare e creare una realtà diversa fatta di pensieri, riflessioni e spunti per trovare la “chiave umana” della guerra.

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diDonato Bevilacqua

Proprietario e Direttore editoriale de La Bottega di Hamlin, lettore per passione e per scelta. Dopo una Laurea in Comunicazione Multimediale e un Master in Progettazione ed Organizzazione di eventi culturali, negli ultimi anni ho collaborato con importanti società di informazione e promozione del territorio. Mi occupo di redazione, contenuti e progettazione per Enti, Associazioni ed Organizzazioni, e svolgo attività di Content Manager.