Psicoanalisi

Psicoanalisi, età dell’ansia e flusso di coscienza: Joyce, Lawrence, Eliot, Woolf

Influenzati dalle ricerche di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, gli scrittori della seconda decade del Novecento spostano l’attenzione dalla società alla mente dell’individuo: l’azione smette di essere esterna e si concentra sui reconditi meandri della psiche, dove l’uomo affronta se stesso, preda di insicurezze e frustrazioni, in un crescente senso d’ansia che trova perfetta espressione nelle opere di Franz Kafka (Il castello, Il processo…). La citazione di Aldous Huxley in Ape and Essence del 1948 «fear is the very basis and foundation of modern life», evidenzia la condizione in cui è immersa la collettività a cavallo tra i due conflitti mondiali: è questo il motivo per cui, al di là del progresso scientifico e dello sviluppo delle macchine, regna un generale pessimismo. La ragione esaltata dall’Illuminismo settecentesco crolla di fronte alle perplessità che attanagliano l’essere umano, e questa particolare predisposizione giustifica la riscoperta e fortuna delle opere dei poeti metafisici e di John Donne, a suo tempo smarrito «dinnanzi alle nuove scoperte nel campo astronomico (Copernico, Ticone, Keplero, Galileo) e nel campo filosofico (Bacone)».

Gli scrittori che fanno parte di questo momento culturale, sono portatori di innovazioni in ambito letterario sia nei contenuti, che richiamano il clima di precarietà e povertà etica tipico del tempo, che nello stile, mediante l’utilizzo di quello che nei paesi anglosassoni viene definito “stream of consciousness”, secondo la formula coniata dallo psicologo e filosofo William James (fratello dello scrittore Henry), «apparsa in una pubblicazione del 1884, e applicata nel 1918 alla letteratura in una recensione di May Sinclair ai romanzi di Dorothy Richardson». In realtà, alle volte si tende a confondere il “flusso della coscienza” col “monologo interiore”, ma come sottolineato da Robert Humphrey in Stream of Consciousness in the Modern Novel del 1954, i due termini non si equivalgono poiché «il secondo è un procedimento tecnico, mentre il romanzo che si configura come flusso della coscienza è un genere, intendendo per coscienza l’intera area dell’attenzione mentale, che va dallo stato di completa lucidità fino alle gradazioni che conducono all’inconscio».

Il degrado dei costumi e l’alienazione dell’uomo – macchina, vengono ritratti con profondità in The Waste Land (1922) di T. S. Eliot, considerato uno dei capolavori della letteratura a cavallo fra il XIX e XX secolo. Il titolo è emblematico e si riferisce alla crisi della società occidentale in seguito alla Prima Guerra Mondiale, considerata un’inutile strage, una grossa perdita in termini di vite umane, per non parlare delle enormi spese sostenute dagli stati partecipanti al conflitto. Il testo è ricco di richiami, citazioni e riferimenti, senza contare i diversi aspetti che ancora non sono stati affrontati dalla critica letteraria, nonostante The Waste Land sia uno dei testi più studiati nelle università anglosassoni e sia stato oggetto negli anni di numerosi approfondimenti. Nell’opera, l’autore sottolinea il clima di aridità spirituale della società moderna, in contrapposizione agli ideali dei poeti antichi, e il sentimento di inutilità provato dall’uomo e la consapevolezza di vivere in un mondo dove nulla ormai ha più senso.

Un sottile filo rosso, lega The Waste Land al precedente Sons and Lovers di D. H. Lawrence, un autore i cui testi risentono particolarmente dell’influsso psicoanalitico freudiano. In Sons and Lovers del 1913 (ma io vi consiglio anche The Rainbow, un libro bellissimo) viene fatto evidente riferimento al complesso di Edipo, esplicato in questo caso nell’amore morboso di una madre per il figlio, che proprio a causa di questo legame ossessivo non riuscirà mai a condurre una normale vita sentimentale. I libri di Lawrence evidenziano il carattere irrequieto del loro autore, che «anela alla vita istintiva» e denuncia le conseguenze negative del progresso e dell’intellettualismo. L’esperienza sessuale è fondamentale, poiché impartisce lezioni di vita immediate, l’esistenza stessa viene concepita come libertà, «eterno fluire», imprevisto, mentre nella società moderna l’uomo è una macchina, regolare e prevedibile, e tale meccanizzazione appare simile a «uno spaventoso Laocoonte tra spire di ferro».

Per quanto riguarda il flusso della coscienza, esso deve la sua “fama” all’opera di James Joyce: nell’Ulisse, lo scrittore sviluppa la storia nell’arco di una giornata e secondo la struttura dell’Odissea di Omero, in modo che a Leopold e Molly Bloom corrispondano Ulisse e Penelope, e a Stephen Dedalus (protagonista del precedente A Portrait of the Artist As a Young Man) il personaggio di Telemaco. Ulisse è un libro rivoluzionario, poiché mentre ogni opera d’arte precedente è frutto d’una selezione di elementi e tematiche, Joyce mette mano ai suoi testi in profondità, sviscera le parole, cerca di rendere l’effetto dell’automatismo psicologico in pagine dense di suoni e significati (in Finnegans Wake questo processo giungerà ai massimi risultati). Non mancherà in tutta l’opera di Joyce, una palese critica alla paralisi che blocca la gente di Dublino, causata dal clima religioso e politico del tempo: questo aspetto è evidenziato sopratutto in Dubliners, i cui protagonisti prendono sempre coscienza della loro condizione, tentando una fuga destinata puntualmente al fallimento (il titolo dell’ultimo racconto, I morti, è abbastanza rappresentativo in tal senso).

La tecnica di Joyce sembra avere una certa influenza in Virginia Woolf, in quanto dei particolari dell’Ulisse sono riscontrabili in Mrs Dalloway, anche se in realtà lo stile della scrittrice è più vicino al primo Joyce, quello dei Dubliners. In Mrs Dalloway, viene sottolineato il potenziale intrinseco degli oggetti, capaci di evocare ricordi sepolti da tempo negli oscuri angoli dell’inconscio (impossibile non pensare alla madeleine proustiana che richiama l’infanzia a Combray del protagonista de Alla ricerca del tempo perduto). I moments of being della signora Dalloway (in opposizione ai momenti di non–being che dominano gran parte della vita conscia dell’individuo), permettono all’autrice di arricchire il suo testo sin dalle prime pagine e di ritrarre l’intera società inglese. «Siamo tutti in carcere» mormorano due dei personaggi del libro: anche la signora Dalloway è prigioniera delle convenzioni e della maschera di rispettabilità che si è costruita negli anni. Riuscirà a evadere dalla sua gabbia dorata solo per un momento quando, durante la festa da lei organizzata, apprenderà la notizia della morte di un uomo, uno sconosciuto che si è ucciso, gettandosi da una finestra: l’avvenimento le provoca un senso d’inquietudine ed empatia con il suicida, un improvviso riconoscimento di se stessa, che costituirà il culmine di tutto il romanzo.

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