Mario Rigoni Stern

Mario Rigoni Stern: viaggiare restando fermi

Qualche mese fa mi è stato chiesto di moderare un paio di interventi in occasione del K.lit, il festival dedicato ai blog letterari, che ha avuto luogo il 7 e 8 luglio a Thiene, in provincia di Vicenza. Una bellissima esperienza, con tutti i limiti di una prima edizione, ma ricca di idee, entusiasmo, un’ottima organizzazione degli eventi e, soprattutto, tanti relatori preparati, che si sono confrontati non solo sull’argomento “blog letterario”, ma su tutto quel sistema chiamato “cultura” e i vari modi in cui questa si esplica nel quotidiano, attraverso varie discipline e ambiti (dall’editoria, alla scuola, alla medicina e così via).

Mi sono misurata sul tema «Diversità e abilità nell’uso della lingua», insieme a Lisa Galli; ho intrattenuto una bella chiacchierata con Leonardo Palmisano, sui blog come sussidi scolastici; ho moderato una tavola rotonda con Marco Crestani ed Emanuele Pettener su Mario Rigoni Stern e il “viaggiare restando fermi”. È incredibile come, su questo argomento, siano nati tanti spunti di riflessione sul rapporto, quasi paradossale, dello scrittore vicentino con la tematica del viaggio. Perché paradossale? Perché quando parliamo di Rigoni Stern, non parliamo di cronache di viaggi lontani, in posti esotici: il più delle volte il viaggio si concretizza in semplici gite fuori porta, nei luoghi a lui più cari, quelli dell’Altopiano di Asiago. Come si esplicano le parole nella sua letteratura, perché parlare di “viaggi” e non di “escursioni” o “passeggiate”? Inoltre, come si può “viaggiare restando fermi”?

Prima di domenica, non sapevo quasi di niente di Rigoni Stern, pur essendo di Valdagno, e pur avendolo sentito molto spesso menzionare anche a scuola. Alle medie, il mio professore d’italiano mi fece leggere Uomini, boschi e api, ma allora non ero in grado di capire a fondo la forza espressiva delle immagini richiamate. Ho avuto una prima consapevolezza delle grandi doti evocative di Rigoni Stern, quando durante la conferenza è stato letto l’incipit de Il sergente nella neve:

«Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso, provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò addosso le sue settantadue bombarde».

Seduti in poltrona, senza fare alcun movimento, se non quello di girare la pagina, i lettori sono trasportati nell’universo dello scrittore mediante un linguaggio semplice, diretto, eppure capace di soffermarsi su interi mondi, catturandone ogni più piccolo particolare, trasformandolo in qualcosa di unico, irripetibile, suggestivo. Pur differenziandosi nelle tematiche e nel genere, è facile accostare Rigoni Stern a un grande della letteratura, Vladimir Nabokov, i cui libri sono saturi di descrizioni minuziose di ambienti, azioni, presenze fisiche, con uno stile che non risulta mai noioso, ampolloso o ermetico. Ripenso sempre ad Ada o ardore, “divorato” distesa sul prato di fronte al castello Visconteo a Pavia, nell’estate di due anni fa: un libro di quasi settecento pagine, che non presenta mai un momento di stanchezza. In questo risiede la grandezza di Nabokov o Rigoni Stern, nel fatto di riuscire a ricreare con le parole un luogo, un oggetto, una persona, che il lettore non ha mai visto, ma che grazie al racconto appaiono nella sua mente sotto forma di immagini nitide, chiare.

La capacità di trasmettere qualcosa con la scrittura non è una dote di tutti. Quante volte leggiamo testi pesanti, quante volte non siamo in grado di immedesimarci in una storia, e abbandoniamo, stanchi, un libro. Un autore, in questi casi, ha miseramente fallito il suo compito, quello di comunicare e realizzare col suo scritto qualcosa di bello. Durante la tavola rotonda, si è discusso anche di questo, della bravura di Rigoni Stern nell’offrire immagini efficaci che, in quanto efficaci, risultano anche belle.

La bellezza è alla base di qualsiasi opera d’arte: produrla in un libro, in una canzone, in un dipinto, in una fotografia, in una danza, è lo scopo principale di un artista. Ecco che, quindi, è necessario trovare uno strumento che realizzi tale intento, e in questo risiede lo stretto legame fra efficacia e bellezza: efficacia dello strumento in relazione al fine ultimo, la bellezza. La scrittura di Rigoni Stern centra senza dubbio l’obbiettivo, è efficace grazie alla semplicità dei termini che ricreano, allo stesso tempo, immagini complesse. Egli odiava i giri di parole, era il prodotto della sua terra, della vita di montagna, rigida, aspra, ma dotata anche di una profonda dolcezza: a chi gli proponeva un posto a Roma come senatore a vita, Rigoni Stern rispose che non avrebbe mai abbandonato il suo paese per uno scranno in parlamento. Prima di morire, ha ripercorso i luoghi amati, soprattutto Vezzena e Marcesina. È stato sepolto senza vestiti a terra, come unico ornamento una croce di legno d’abete, condividendo il destino dei soldati caduti sull’Altopiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Così si è conclusa la sua esistenza, nello splendido panorama di Asiago e dintorni, che “Mario” ha saputo ricreare così bene nei suoi libri, da risultare di casa anche per chi non ha mai avuto la fortuna di vederli coi propri occhi.

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