Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio,
se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento,
se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento,
anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.
Ci sono stagioni che non passano o che non vogliamo far passare. Restano impresse, oltre che nei ricordi di chi le ha vissute, nelle fotografie, nella polvere degli oggetti, e perfino nelle parole di una canzone. La stagione delle grandi proteste studentesche e sociali che, sul finire degli anni ’60, hanno infiammato in primis Europa ed USA, è una di queste. Per tutti il Sessantotto, il maggio delle grandi rivoluzioni, dei sogni. Di quei giorni ci restano note indimenticabili, da Bob Dylan a De André fino alle ballate popolari; ci restano saggi e studi sociologici e politici. E ci resta anche qualche buon romanzo, perché anche la letteratura, in fondo, deve saper analizzare alla sua maniera epoche che lasciano un segno. Era di maggio, romanzo di Cesare de Seta scritto nel 1991 (e alla terza ristampa per la casa editrice Hacca), è uno di questi tentativi. Certo a de Seta va dato il merito di aver avuto coraggio nello scrivere del passato. E anche di aver avuto fiducia nei lettori, perché ogni autore che crea strutture narrative attorno a queste vicende spera che chi legga sia ben predisposto a ricordare o imparare; soprattutto quando si mescolano storia e letteratura.
E se vi siete detti non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno, arresteranno qualche studente,
convinti che fosse un gioco a cui avremmo giocato poco,
provate pure a credervi assolti, siete lo stesso coinvolti.
In fondo de Seta ci presenta una storia d’amore tra due giovani ragazzi dell’epoca, Fabrizio e Sara. Lei coinvolta fino al midollo nelle vicende del movimento studentesco, così presa da lasciare in secondo piano tutto il resto. La passione politica e le ideologie vincono sui sentimenti, anche quelli più privati. Fabrizio così perso negli occhi di Sara, occhi tristi che lo attraversano troppo spesso, senza colore, fatti di vuoti ed attese interminabili. Lui così innamorato di quelle passioni ma anche inizialmente così “distante” da quel modo di vivere, incapace di una scossa. Tra le ideologie di Sara e il continuo rincorrere di Fabrizio c’è lo sfondo del finire degli anni ’70, delle fabbriche chiuse o occupate, studenti arrestati, manifestazioni, scontri. Mano a mano che le pagine si susseguono non si gioca più, e anche Fabrizio viene coinvolto in questo turbine di storia, nei mutamenti, nel sesso come massima espressione di libertà.
Anche se avete chiuso le vostre porte sul nostro muso,
la notte che le pantere ci mordevano il sedere,
lasciandoci in buonafede massacrare sui marciapiede,
anche se ora ve ne fregate, voi quella notte voi c’eravate.
Ma se Sara rappresenta l’impulso e la voglia irrefrenabile di cambiamento dei giovani dell’epoca, Fabrizio è la coscienza più profonda, è il risveglio un attimo dopo la bolgia, dopo la sbronza e le botte: è l’utopia irrealizzabile di chi ama e può amare solo da lontano. De Seta prova in effetti a svoltare il romanzo verso pillole di formazione, e a presentarci questioni e problemi ancora irrisolti. La vita è una porta bella dura che sbatte in faccia ai protagonisti, che si prende gioco di loro, li reinventa, li sballotta nella storia, li fa perdere e ritrovare, poi perdere ancora. Come ricorda Colasanti nell’interessante appendice al romanzo, «la delusione è l’architrave dell’intera vicenda». Attorno ad essa ruotano analisi psicologiche spinte all’estremo, pensieri che si ripetono e ragionamenti che prendono il sopravvento sugli eventi storici. In questo libro spingere, forse eccessivamente, sugli eventi personali e sulla storia d’amore (fatta appunto di delusioni, di giochi al massacro), oscura a volte le vicende storiche di quegli anni. Ma ciò serve a de Seta per andare “oltre”, per mescolare quotidianità e storia, per portare letteralmente la politica e la contestazione fin “dentro” i protagonisti, nella loro “normalità”.
E se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone le “verità” della televisione,
anche se allora vi siete assolti siete lo stesso coinvolti.
Nelle pagine di Era di maggio niente rimane com’era, e tra barricate, feriti, riunioni, tutto si modifica, continuamente. L’autore fugge dalla fissità e ci propone continui cambi di scena. Così arriva Parigi, arriva Sylvie, una sorta di armonia per Fabrizio che è però solo apparente e che si distrugge nella problematica dell’aborto, nel ritorno della delusione, nella solitudine umana. Alla fine sembra che tutti, nella vicenda, falliscano irrimediabilmente, lasciandoci la sensazione che non ci sia via d’uscita, che vinca la ragione sul sentimento, le utopie irrealizzabili sul cambiamento effettivo.
E se credete ora che tutto sia come prima,
perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare la paura di cambiare,
verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte,
per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.*
«E allora ci pare che il vento su queste pagine sia un vortice di sabbia e sale. Una poesia potente e disumana, un grido. Cenere. Cera secca di anime confuse». Cambiare, per i personaggi di Era di maggio, è inevitabile: vince la vita. Se le sicurezze sono nulla ecco che irrompe la disciplina della ragione, la certezza della delusione. Siamo coinvolti anche noi che a distanza di anni leggiamo queste storie, ma ci resta la sensazione che a vincere sia ancora l’insicurezza, che il fallimento di Fabrizio e Sara sia il fallimento di un’epoca, di un’ideologia, di un ideale. Riusciremo, in futuro, a gridare ancora più forte?
* Fabrizio De André, Canzone del maggio (da Storia di un impiegato, 1973).