Bruno Osimo – Bar Atlantic

Quando un libro non mi piace cerco di fare una sorta di gioco della felicità, cerco cioè di trovare degli elementi positivi negli aspetti principali – trama, stile, personaggi – di quello che tutto sommato mi è sembrato un brutto lavoro; con Bar Atlantic non è stato possibile.

Il libro segue le frenetiche giornate di Adàm, un insegnante precario che per avere un salario accettabile è costretto a fare la spola tra 4-5 università in altrettante regioni, e che è diviso tra la moglie, Ada, e un numero decisamente esagerato amanti. La trama è inconsistente: le giornate di Adàm si ripetono sempre uguali tra il lavoro, la cucina, la corsa, le donne. Per oltre 280 pagine non succede praticamente niente, e quando arriva il tanto atteso punto di svolta – la gravidanza della moglie – è troppo debole e troppo tardivo per avere effetto sulla narrazione. Il libro è in fin dei conti un immenso spot di Adàm, prototipo dell’uomo perfetto: bello, colto, scrittore appassionato, cuoco sopraffino, che fa sesso da dio e che riempie di attenzioni la moglie. Un personaggio per il quale è impossibile simpatizzare: per tutta la narrazione non ha un momento di debolezza o di scoramento, procede spedito per la sua strada infilando il suo membro in una schiera di donne attratte da lui. Gli altri personaggi sono più che altro macchiette prive di consistenza, le amanti sembrano delle donne uscite da un film porno, e la stessa moglie di Adàm che tanto sembrerebbe importante per lui, non è assolutamente approfondita.

Per quanto riguarda lo stile, io non riesco a ricordarne uno peggiore. Il libro è incentrato sulla vita sessuale di Adàm, e proprio queste scene di sesso sono le più becere e volgari che mi sia mai capitato leggere. Tanto per fare un paio d’esempi: «Dopo tre o quattro spinte, il pisello gli si tinge di viola e poi di rosso intenso e, quando viene si ritira, sull’interno delle cosce di Nanda cola un misto di sperma e sangue mestruale». Oppure: «[…] Sasha usa la lingua intorno all’uretre tenendo l’idrante all’esterno della bocca, gongolando agli schizzi che la investono sotto gli occhi, sul naso, sulle labbra, e va avanti a lungo con quel che resta del membro a strusciarsi la pelle del viso, usandolo come il cuscinetto di un portacipria dall’attaccatura dei capelli fino al mento, fino a ottenere una maschera facciale sempre più bianca».

Mi fermo, ma ci sarebbero altri esempi da fare. Oltre al fastidio per un linguaggio che trasuda bassura, c’è una rappresentazione del corpo femminile degna di un macellaio. In sostanza, a mio avviso, se trovate questo libro da qualche parte fatevi il segno della croce, usate delle pallottole d’argento, un paletto di legno o qualsiasi altro rito apotropaico vi viene in mente, ma mettetevi in salvo.

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