A distanza di ore, la morte di David Bowie mi procura ancora sensazioni contrastanti. Da un lato, e per prima, c’è una tristezza direttamente proporzionale al vuoto che la sua scomparsa lascia – e non parlo del mondo della cultura, della musica, dell’arte, parlo della mia vita. Bowie era un pezzetto dei miei 31 anni, al pari dei Natale in famiglia, del primo giorno di scuola, del primo bacio, eccetera. Questa tristezza è un’onda portentosa che sbatte sulla scogliera di una inossidabile solitudine postadolescenziale, la sensazione, confinata in un cantuccio della mia maturità, di essere un alieno capitato in un mondo bizzarro e incomprensibile, che non sarà il mio mai.
Una volta infranta per bene, l’onda si ritira: la risacca è il secondo sentimento che provo al cospetto della morte di Bowie, una meraviglia anche questa direttamente proporzionale, ma alla grandiosità del commiato in questione. Se ogni vita è messinscena più o meno consapevole (dipende dai protagonisti), Blackstar è l’atto finale di un’esistenza che travalica data di nascita e morte. David Robert Jones era un uomo, ed ora non è più; David Bowie è un’idea che, nel corso di cinquant’anni di carriera, ha assunto forme e colori dello Zeitgeist. Come tale, è sempre esistito e sempre esisterà.
Blackstar. Bowie l’aveva annunciato ufficialmente lo scorso ottobre. Era già malato da diversi mesi di cancro al fegato, dunque è probabile che l’abbia concepito, scritto, cantato e suonato con la consapevolezza che potesse trattarsi del suo addio. Ieri, scartabellando il web alla ricerca di qualche ulteriore spunto di riflessione per mettere ordine fra le sensazioni che ancora adesso mi stringono la gola, ho scoperto che “black star” è anche il termine con cui in medicina si indica un tipo di lesione prodotta dal cancro. Oltre a questo, uno dei brani dell’album si chiama Lazarus, “Lazzaro”. Cosa mi colpisce qui? Il coraggio e la lucidità. Immaginate un po’ cosa voglia dire iniziare un pezzo con “Look up here, I’m in heaven” e ambientarne il video di una vecchia camera d’ospedale quando sai che potrebbe essere davvero il tuo futuro più immediato. C’è anche dell’ironia, in tutto questo, perché Bowie non si è mai preso sul serio fino in fondo (pensate al “fumettone” Ziggy Stardust, o alle virgolette di “Heroes”). Soprattutto, c’è il desiderio di continuare a muoversi, andare oltre, stupire, fino all’ultimo secondo utile. Mi fa venire in mente una strofa di Umberto Saba: “Me al largo / sospinge ancora il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore”. È di una poesia intitolata ad Ulisse, archetipo a cui Bowie, “l’uomo che cadde sulla Terra”, incredibilmente somiglia nel suo mix di sete di conoscenza e struggente nostalgia.
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Blackstar, dicevo. Riarrangia le tipiche melodie bowiane con una preminenza di suoni jazz ed elettronici più o meno d’avanguardia. Pesca da Hunky dory (le raffinate linee di piano di Dollar days), dalla “Trilogia Berlinese” (l’incedere di ’Tis a pity she was a whore), dagli anni ’90 di Outside (Sue (Or in a season of crime), si muove oscuro e profetico (Blackstar), dolente ed epico (Lazarus), come in trance (Girl loves me), ma dalle sue ferite (“that can’t be seen”) entra pure un po’ di luce (I can’t give everything away). Non è un capolavoro, Blackstar, ma non importa. Primo, perché è comunque un gran bel disco. Secondo, perché è lo stesso un album perfetto, il saluto migliore che Bowie potesse farci. Di dischi che acquistano valore per qualche accidente occorso a chi li ha scritti è piena la storia del rock (pensate a In utero dei Nirvana, o a Pink moon di Nick Drake), ma qui è diverso. Bowie ha architettato tutto consapevolmente: Blackstar è il silenzio attonito del pubblico quando l’attore, finita la pantomima, si inchina, toglie la maschera e va via, rivelando a tutti la natura illusoria della messinscena. Solo che in questo caso la messinscena è la vita stessa.
Non ce ne saranno più come David, io lo so. Il che rimpolpa entrambe le sensazioni che mi affliggono, la tristezza e la meraviglia. Abbiamo perso un pezzo unico, ma almeno siamo stati tanto fortunati da essere suoi contemporanei. Carmelo Bene diceva che “bisogna essere dei capolavori”. Bowie c’è riuscito, ed io so che, passata la tristezza, stasera il cielo mi sembrerà più splendente.