Paolo Sorrentino – L’amico di famiglia

Geremia de’ Geremei è un uomo brutto e con una brutta professione: è uno strozzino, anche se possiede una sartoria con cui maschera la sua vera attività. Geremia de’ Geremei non è solo un uomo brutto e con un brutto lavoro, ha pure una brutta vita. Vive con la madre anziana e paralizzata in un modesto appartamento, non ha amici, se non la compagnia di Gino, che sogna il Tennessee e si veste da cow- boy; inoltre, Geremia ha una passione sfrenata per i cioccolatini – che non offre a nessuno – e un rapporto difficile con le donne. Un giorno si presenta da lui un padre, che chiede del denaro in prestito per poter pagare il matrimonio della figlia, una reginetta di bellezza che suscita l’interesse di Geremia, il quale diventa improvvisamente un “caro amico di famiglia”, pronto a prendersi a cuore il caso dell’avvenente e futura sposa.

Terzo lungometraggio firmato da Paolo Sorrentino dopo L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia è uno dei film più riusciti del regista napoletano: nel cast spicca il bravissimo Giacomo Rizzo, che per nulla fa rimpiangere l’attore feticcio di Sorrentino, l’altrettanto talentuoso Toni Servillo. Un film che indaga l’animo umano, le sue brutture e debolezze, che non appartengono mai al solo protagonista, ma anche (anzi, soprattutto) alla miriade di personaggi che gli stanno accanto. Considerato il cinismo e la falsità di tutti i caratteri, L’amico di famiglia smette di essere un film sull’usura e diventa la storia di un uomo solo, prigioniero del suo corpo, che da cacciatore diventa preda.

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«Non sottovalutare le conseguenze dell’amore» scriveva Titta Di Girolamo nel suo taccuino solo qualche anno prima e, se ne L’amico di famiglia di amore non si può parlare (semmai di attrazione che sconfina nell’ossessione e nell’illusione di Geremia di essere innamorato di Rosalba), anche qui il punto di svolta è rappresentato da una donna: c’è un preciso e inconfondibile momento in cui il protagonista abbassa le sue difese e apre la strada alla sua auto-distruzione.

La funzione dei film di Sorrentino non è quasi mai di aperta denuncia, anche se non mancano temi di carattere sociale – corruzione, mafia, decadenza dei costumi – o politico (Il divo). Semmai vengono raccontate storie (come ogni buon regista sa fare) e costruiti personaggi criptici, sui quali spesso incombe l’inquietante presenza dei luoghi in cui si muovono (che sia un deprimente paesino dell’Agro Pontino o la Roma decadente del ventunesimo secolo, non fa differenza). I protagonisti sorrentiniani sono il prodotto dell’ambiente in cui vivono, del loro retaggio famigliare (lo stesso padre di Geremia era un usuraio) o del loro passato, presentano sempre mille sfaccettature, perché nessuno è mai completamente cattivo e mai completamente buono. Difficile provare simpatia per Geremia de’ Geremei, ma forse c’è spazio per un po’ di compassione nell’epilogo, quando è ormai palese che la tragica sorte non dipende solo dalle sue scelte sbagliate, ma anche dalla disonestà altrui. Ma se immorali sono gli altri e, per professione, immorale è Geremia, è chiaro che nel microcosmo di Sorrentino nessuno si salva e che quello messo in scena è il desolante quadro di una società marcia in ogni sua componente. «Rubano tutti Geremia, e tutti sono infelici».

 

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