L’autrice de Il male che si deve raccontare, Simonetta Agnello Hornby, ha svolto per anni lavoro di assistenza legale in supporto a donne vittima di violenza domestica. Con la collaborazione di Marina Calloni, docente di Filosofia Politica alla Bicocca di Milano e animatrice del movimento femminile “Se non ora quando?”, ha scelto di offrire la propria testimonianza per allargare il cono di luce che, mano a mano, sta rubando spazio all’ombra secolare gettata sulle manifestazioni di prepotenza machista in ambito famigliare. Da mesi, oramai, episodi legati alla violenza di genere e alla sua propaggine più estrema – quella del cosiddetto femminicidio – stanno colonizzando le pagine di cronaca nera dei principali quotidiani nazionali a dare notizia di un fenomeno che è stato riconosciuto, finalmente, come endemico. Tuttavia mancano in Italia programmi istituzionali di prevenzione e di sostegno che aiutino i soggetti vittima di maltrattamenti o di stalking a superare la loro condizione di disagio e, soprattutto, è assente sul terreno culturale la basilare consapevolezza del fatto che gli abusi sul corpo femminile sono il frutto di una discriminazione di genere avallata da un assetto sociale ancora intriso di valori patriarcali.
Agnello Hornby racconta la ferocia delle percosse e delle vessazioni che ha incontrato nel corso della sua esperienza sul campo, durante il periodo trascorso come legale presso lo studio londinese di Hornby & Levy. Le storie portate sulla pagina sono riproposizioni di accadimenti reali: dalla vicenda di Fenella, ragazza di origini irlandesi stuprata dal padre, a quella di Fiona, giovane picchiata a sangue dal marito e privata di ogni indipendenza economica. Leggendo il testo di Hornby si comprende come la violenza di genere si annidi ovunque, ad ogni altezza della scala sociale, tra i reietti come tra gli altolocati, a conferma della trasversalità dell’abuso di matrice sessista.
Di interessante c’è la proposta dell’autrice per l’adozione in Italia del metodo di intervento in difesa delle donne elaborato dalla Global Foundation for the Elimination of Domestic Violence, orgaizzazione creata dall’attivista britannica Patricia Scotland. Con un programma che prevede l’adozione di figure istituzionali – denominate IDVA, Independent Domestic Violence Advisors – capaci di affiancare personalmente i soggetti maltrattati e di tribunali specializzati – MARAC, Multi-Agency Risk Assestment Conference –, il progetto Scotland è riuscito a dimezzare le cifre della violenza domestica nel Regno Unito e chissà che non possa servire da esempio anche per l’Italia.